Quando si affronta il tema dei rapporti interpersonali – che si estendano a contesti istituzionali, di coppia, di amicizia, politici o sociali – ci si trova spesso in difficoltà nel definirli e, ancor di più, nel caratterizzarli. Spesso si evita di rispondere per paura di esprimere giudizi inaccurati o di suscitare risentimenti.
Eppure, anche in un’era dominata dalla tecnologia, l’interazione umana non può essere elusa indefinitamente. Il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di gestirla causando il minor danno possibile. Da qui nasce una riflessione personale: se io mi preoccupo di come vengo percepito, gli altri usano la stessa accortezza?
Un’esperienza recente mi ha portato a capire che questa sensibilità non è così diffusa. Per esempio, in un’occasione in cui avevo cercato di chiarire una situazione, la mia disponibilità è stata interpretata come una vittoria da parte dell’interlocutore. La mia volontà di soprassedere è stata travisata come un segnale di compiacenza verso le aspettative altrui e un tacito consenso a non criticare in futuro le loro azioni. Si è trasformata, dunque, in un compiacimento personale che ha ignorato il bene comune.
E allora mi chiedo: ha senso fare un passo indietro per procedere insieme, oppure un passo laterale per riallineare le volontà, se c’è sempre qualcuno disposto a prevalere? Questa è la ragione per cui penso che non si debba più rinunciare alla critica costruttiva, anche se non è ben accetta dall’altra parte. Bisogna mantenere salda la propria posizione fino a quando non è l’altro a cedere. Ma ciò, inevitabilmente, porta ai conflitti.
È possibile che esista solo un approccio da “pecora” o da “lupo”? La parola “verità” può tornare a significare ciò che è universalmente vero e non semplicemente “quello che io intendo per verità”? Dove stiamo andando?
